Delitti

Mi appassiona la cronaca nera. Ripercorro in questa pagina delitti che mi hanno particolarmente colpito e per i quali la giustezza della pena è solo un’illusione

Uccidere per Satana costa solo quattro anni


6 Giugno 2023

Era il 6 giugno 2000. Sono trascorsi 23 anni esatti dal brutale e assurdo delitto di suor Maria Laura Mainetti. Siamo a Chiavenna, rinomato centro turistico in provincia di Sondrio, non in una periferia degradata.

Quella sera la religiosa riceve la telefonata di una giovane che conosce e che le chiede aiuto perchè, dice, rimasta incinta dopo uno stupro. A telefonare è Veronica, 17 anni, le sue amiche, Ambra e Milena, hanno 17 e 16 anni.

Bloccano la suora e la uccidono con 19 coltellate. Perchè? Per la voglia di vivere forti emozioni, quelle emozioni che le aveva portate a votarsi a Satana e ad elaborare un piano per fare un sacrificio umano. La suora viene scelta perchè esile di corporatura.

Dovevano essere diciotto, i colpi di lama. Sei a testa. Sei-sei-sei: il Numero della Bestia. Sei coltellate da Milena De Giambattista, sei coltellate da Ambra Gianasso, sei coltellate da Veronica Pietrobelli. Lei agonizzava («Aiuto, lasciatemi, non voglio denunciarvi»); loro urlavano («Crepa, crepa e basta»). Le amiche assassine di Chiavenna. Le “ragazze di Satana”, come furono definite.

Poi se ne tornano a casa e saranno scoperte solo dopo tre settimane.

Per il loro gioco non hanno pagato quasi nulla. Veronica Pietrobelli, che fece la telefonata per attirare in trappola suor Maria Laura Mainetti, fu condannata a 8 anni. Ne ha scontati 4 e nel 2004 è tornata libera.

Anche Milena De Giambattista, la più giovane, è tornata libera dopo 4 anni.

Ambra Gianasso, considerata la mente dell’omicidio, fu condannata a 12 anni ma fu dichiarata parzialmente incapace di intendere e volere, dopo alcuni anni è passata al regime di semilibertà per poi lasciare definitivamente la reclusione.

Tutte hanno cambiato identità e si sono trasferite in altre città, si sono laureate (Ambra in giurisprudenza) e sono diventate madri.

Suor Maria Laura Mainetti è stata beatificata.

Sepolta agonizzante a 16 anni, l’omicida dopo tre anni chiede di lavorare fuori dal carcere


7 Giugno 2023

In pochi ricorderanno il delitto di Noemi Durini, avvenuto il 3 settembre 2017. E’ finito nella lunga lista di donne uccise dai propri compagni, che ogni anno sono così tante da ricordare solo i delitti più efferati. Solo che Noemi aveva appena 16 anni, età in cui di solito ci si limita a timide cotte adolescenziali e non ad amori tossici che ti picchiano fino a sfondarti il cranio, ti accoltellano e poi ti seppelliscono ancora viva sotto un cumulo di pietre.

Noemi aveva 16 anni ed abitava a Specchia, in provincia di Lecce, a pochi chilometri dalla tristemente famosa Avetrana. Da un anno frequentava Lucio Marzo, neppure un anno di più visto che quando ha commesso il delitto non aveva ancora compiuto 17 anni, ed era totalmente persa per quel ragazzo, al punto da litigare costantemente con la mamma, che ostacolava la relazione, e da bocciare a scuola.

Una mamma preoccupata al punto da aver presentato denuncia al Tribunale dei minori contro il ragazzo quando la figlia le era tornata con la faccia gonfia, ma nessun provvedimento era stato preso, nessuna indagine effettuata. Seppur completamente plagiata dal ragazzo, Noemi si rendeva conto di essere in una situazione difficile: la famiglia del ragazzo non la sopportava, i litigi erano continui e lei scriveva sul suo profilo Facebook pochi giorni prima di essere uccisa “Non è amore se ti fa male/non è amore se ti controlla/non è amore se ti picchia/non è amore se ti umilia”.

Ma all’alba di quel 3 settembre Noemi esce di casa di nascosto e non tornerà mai più. Scomparsa.

Gli inquirenti impiegano dieci giorni a far confessare il ragazzo che poi indicherà anche il luogo dove l’ha sepolta, ancora viva. Quando la folla cerca di linciarlo lui saluta baldanzoso.

Nel 2018 viene condannato ad una pena di 18 anni e 8 mesi, al termine di un procedimento celebrato con rito abbreviato chi quindi gli concede già uno sconto di un terzo della pena. Dopo tre anni di detenzione nel penitenziario di Quartuccio in Sardegna, nel 2021, chiede di lavorare fuori dal carcere: vuole tornare a vivere, lui.

Il delitto di Serena Mollicone ed il mistero della caserma


21 Giugno 2023

E’ il 3 giugno 2001 quando in un boschetto ad Arce, in provincia di Frosinone, viene ritrovato il corpo di una diciottenne uccisa, legata mani e piedi con il fil di ferro, bocca e naso chiusi da nastro adesivo e la testa chiusa dentro ad un sacchetto di plastica. La ragazza, Serena Mollicone, era scomparsa due giorni prima. Da quel momento ha inizio una storia fatta di indagini dubbie, depistaggi, arresti clamorosi ed anche uno strano suicidio. Con un innocente finito in carcere e tre successivi arresti clamorosi.

Serena Mollicone vive ad Arce con il padre, insegnante, e la sorella (la mamma è morta qualche anno prima) e frequenta l’ultimo anno della scuola superiore. La mattina del 1 giugno deve andare all’ospedale a fare una radiografia e poi vedersi con un ragazzo che frequenta da qualche tempo. Esce di casa e se ne perdono le tracce. Il padre ne denuncia la scomparsa la sera e scattano le ricerche: la proprietaria di un bar dice di averla vista in compagnia di alcuni amici, un carrozziere testimonia di averla vista litigare con un ragazzo biondo. Poi più nulla, fino al 3 giugno quando il corpo viene ritrovato nel boschetto con accanto i libri ed i quaderni della ragazza. Non c’è il cellulare. Viene perquisita tutta la casa ma del telefono non c’è traccia. L’autopsia accerta che la ragazza è morta soffocata, dopo aver riportato un forte trauma alla testa. Secondo il padre è stata uccisa perché sapeva che alcuni ragazzi del paese spacciavano droga e voleva denunciarli, ma il comandante della stazione dei carabinieri Franco Mottola non segue questa pista. Il 9 giugno, giorno dei funerali, quando il padre torna a casa trova in un cassetto, in precedenza già controllato, il cellulare della ragazza. Un mistero, così come il numero 666 lì digitato. Si segue quindi la pista della setta satanica, argomento che va molto di moda in quegli anni. Proprio un anno prima aveva suscitato grande clamore il delitto di una suora portato a termine dalle “ragazze di satana”.

Nel settembre 2002 viene arrestato il carrozziere che aveva testimoniato di aver visto la ragazza litigare con un ragazzo biondo. Resterà in carcere 18 mesi prima di essere dichiarato completamente estraneo al fatto.

E le indagini si fermano, fino all’aprile 2008, quando un carabiniere della stazione di Arce, Santino Tuzi, va in procura e racconta di aver visto Serena entrare in caserma quel 1 giugno e non riuscirne più. Una settimana verrà trovato senza vita nella sua auto: si è ucciso con la sua pistola. Per pene d’amore diranno i colleghi e le indagini da loro effettuate.

Ma il racconto del carabiniere fa riprendere le indagini e questa volta non sono i suoi colleghi di Arce a condurle bensì i Ris. Anzi è su di loro che si concentrano i sospetti. Il comandante maresciallo Franco Mottola ha un figlio, Marco, amico di Serena, che poco prima della morte della ragazza si era fatto delle meches bionde ma si era tagliato i capelli corti dopo il ritrovamento del corpo della ragazza.

Le indagini portano ad una nuova ricostruzione del delitto: Serena avrebbe litigato con il ragazzo, forse proprio perché voleva denunciare il giro di droga tra i giovani del paese, avrebbe dimenticato i libri nella sua auto e sarebbe andata nell’appartamento in caserma per recuperarli. Qui un nuovo violento litigio, la ragazza sbatte la testa contro una porta (poi sequestrata) ma non muore. Viene lasciata agonizzante, poi legata dal padre del ragazzo e lasciata soffocare con il sacchetto legato al collo. A processo finiscono il maresciallo, il figlio Marco, la madre del ragazzo ed anche due carabinieri che, insieme al loro comandante, avrebbero messo in piedi una serie di depistaggi per sviare le indagini e salvare il ragazzo. Tra questi anche il ritrovamento del telefonino, riportato casa senza un filo di impronte sopra, e con il numero 666 per far deviare le indagini verso le sette sataniche.

Nel settembre 2021 si apre il processo a carico della famiglia Mottola e dei due carabinieri che si conclude nel luglio 2022, dopo 46 udienze, con l’assoluzione di tutti gli imputati. A febbraio 2023 le motivazioni della sentenza, a marzo la presentazione del ricorso in appello. Il nuovo processo è stato fissato per il prossimo 26 ottobre. Nel frattempo il padre di Serena è morto senza sapere chi ha ucciso sua figlia.

Melania Rea, uccisa con 29 coltellate: al marito Salvatore Parolisi niente ergastolo e dopo solo 12 anni permessi premio


11 Luglio 2023

Aveva 29 anni Melania (Carmela) Rea, bellissima giovane mamma di una bimba, Vittoria, di appena 18 mesi.

E’ il 18 aprile 2011 quando, nel pomeriggio, il marito Salvatore Parolisi denuncia di non riuscire più a trovare la moglie. E’ un lunedì quando padre, madre e la bimba erano andati a fare una passeggiata a Colle San Marco, una località boschiva nei pressi di Ascoli Piceno. L’uomo racconta che la moglie si sarebbe allontanata per andare in bagno nell’unico bar della zona e sarebbe misteriosamente scomparsa.

Parolisi ha 30 anni ed è un Caporal Maggiore Capo dell’Esercito Italiano in servizio dal febbraio del 2008 presso il 235 Reggimento Addestramento Volontari “Piceno”, di stanza ad Ascoli Piceno.

Iniziano immediatamente le ricerche che non danno esisto fino al 20 aprile, quando un uomo di mezza età, con accento teramano, telefono al 113 e racconta del ritrovamento di un cadavere, mentre stava facendo una passeggiata nel bosco delle Casermette a Ripe di Civitella, in località Chiosco della Pineta.

Ad alcuni metri dal chiosco, su un tappeto di foglie e aghi di pino, il volto rivolto in alto e i piedi verso il chiosco sotto un cielo di primavera, c’è la giovane donna, seminuda, il corpetto nero (con sopra un giubbino) leggermente alzato verso il seno, ed i jeans, i collant e gli slip abbassati sotto alle ginocchia; inoltre vi erano degli evidenti “sfregi” praticati nella parte “nuda” e, in particolare, sul ventre e sulle cosce ed una siringa del tipo insulina conficcata all’altezza del cuore. Parolisi riconosce il luogo dove è stato trovato il corpo di Melania come quello dove 15 giorni prima si era appartato romanticamente con la moglie nel corso di una gita.

Successivamente, a seguito dell’autopsia, sul corpo vengono riscontrate 29 ferite profonde provocate da punta e taglio e distribuite alla regione cervicale, al tronco ed agli arti superiori.

Nonostante una serie di segnali che vorrebbero accreditare l’omicidio da parte di un maniaco, l’ipotesi viene subito scartata e si propende per una serie di depistaggi da parte del killer.

Gli investigatori, tenuto anche conto degli atteggiamenti e, soprattutto, dei comportamenti del marito nelle giornate successive al ritrovamento del cadavere, cominciano a nutrire sospetti anche su di lui e iniziano a scavare nel suo passato. Melania Rea è figlia di un militare dell’Aeronautica e sin dall’inizio era affascinata e innamorata di Salvatore a sua volta militare dell’esercito. La famiglia della donna aveva accolto il militare, peraltro di umili origini, come un ulteriore figlio.

La nascita della bimba aveva solidificato ancora di più il legame familiare. Ma un evento inizia a far incrinare la relazione: un giorno Melania riceve una chiamata da un numero sconosciuto, ma in realtà riconosce la voce del marito Salvatore che era incappato nell’errore comune di chi ha una ulteriore scheda telefonica riservata a un’altra persona.

La telefonata aveva insospettito a tal punto Melania che si era messa alla ricerca della donna a cui la scheda telefonica del marito era riservata. La donna si chiamava Ludovica aveva 26 anni ed era un’allieva del marito, la quale confermò di avere avuto una relazione con il suo istruttore.

La donna decide così di affrontare il marito che, scoperto, non nega, ma ne sminuisce l’importanza. Melania, nonostante il tradimento, decide di perdonare il marito per salvare il matrimonio. Parolisi assicura di aver troncato la relazione ma non è così. Addirittura il giorno della scomparsa della moglie aveva chiamato l’amante per dirle di cancellare i suoi contatti. Inoltre, dalle indagini emergerà che era anche in procinto di incontrare la famiglia della soldatessa per una presentazione ufficiale.

Pochi giorni prima di quel 18 aprile, dall’account fake ‘Vecio Alpino’ che usava per chattare con l’amante, Parolisi scrive: “Tu sei la cosa più importante (…) non preoccuparti i nostri accordi (riferendosi alla separazione con Melania, ndr) non vanno per le lunghe, massimo una settimana poi (Melania) dovrà sparire dalla mia vista”. Dall’altra parte la ragazza faceva pressione, lo insultava per non aver avuto il coraggio di affrontare la separazione, lo minacciava di lasciarlo se non lo avesse fatto.

La relazione extraconiugale diventa così un possibile movente e il 21 giugno Salvatore Parolisi è iscritto nel registro degli indagati con l’accusa di omicidio volontario aggravato. Il 19 luglio successivo Parolisi viene arrestato con l’accusa di omicidio volontario aggravato della moglie Melania Rea e rinchiuso nel carcere teramano di “Castrogno”.

L’arresto apre le porte sulle zone d’ombra della vita militare nelle caserme promiscue. Quella dove gli istruttori seducono le soldatesse, dove i commilitoni coprono le scappatelle dei militari con le mogli. Ai compagni Salvatore aveva chiesto, ventiquattro ore dopo la scomparsa della moglie, di non fare cenno alle lunghe telefonate in orario di pausa. In quella circostanza li aveva anche dissuasi dall’organizzare squadre per le ricerche di Melania.

Parolisi però inscena la parte del marito in lutto, mentre dalla ricostruzione dei fatti degli ultimi due anni emerge la figura di un uomo freddo, calcolatore, completamente estraneo al ruolo di marito e padre. Un uomo che, secondo la ricostruzione processuale, ha programmato l’omicidio della moglie per non doversene separare e perdere così i privilegi di erede e i diritti di padre.

Il 26 ottobre del 2012, il Giudice dell’Udienza Preliminare del Tribunale di Teramo, dopo circa tre ore di camera di consiglio, condanna all’ergastolo Salvatore Parolisi e gli commina le pene accessorie dell’interdizione perpetua dai pubblici uffici, interdizione legale e decadenza dalla potestà genitoriale.

Secondo quanto emerso nel corso del processo l’uomo avrebbe sopraffatto una donna vulnerabile colpendola con rabbia e rancore.

Nel maggio del 2015 la Corte d’Assise d’Appello di Perugia ha portato da 30 a 20 anni di reclusione la pena.

Un ricalcolo reso necessario dal pronunciamento della Cassazione il precedente 10 febbraio, quando la Suprema Corte, pur confermando la colpevolezza dell’imputato, aveva escluso l’aggravante della crudeltà, nonostante le numerose coltellate che hanno sfigurato la giovane donna. Salvatore Parolisi si è sempre professato innocente e nel penitenziario di Torre del Gallo di Pavia dove è recluso studia Giurisprudenza.

Non può più vedere né sentire sua figlia Vittoria, di cui da tempo ha perso la patria potestà. La piccola vive con i nonni materni a Somma Vesuviana e non porta più il cognome del padre. Ha ottenuto di cancellare dalla sua carta di identità il passato, ora per tutti è Vittoria Rea.

Ma a distanza di 12 anni dal delitto Salvatore Parolisi ha potuto beneficiare di “permessi premio” ed uscire dal carcere. Ne ha approfittato per tornare subito alla ribalta delle cronache e rilasciare corpose interviste.